L’IMPRESSIONE DI UNA IMPLOSIONE

“Che preoccupante silenzio. Forse è giunto il momento. Forse mento. Probabilmente sta arrivando, o ancor peggio eccolo lì che ci guarda, mentre non crede ai suoi occhi.

Che preoccupante silenzio.

E’come esser colpiti da un violento terremoto, da un improvviso attacco, che non ci ha lasciato il tempo di capire. Siamo sotto le macerie ma non sentiamo nessuno che urla il nostro nome e allora pensiamo ci basti solo respirare. Per quanto ancora. Un lentissimo rallentato violento silenzioso terremoto ci ha colpito tutti.

Sta durando mesi, forse anni. Sono scosso. Quando ci toglieremo questa nebbia finta dagli occhi, quando benderemo la nostra incapacità di pilotare le nostre scelte, inizieremo soltanto allora ad avviare il primo processo, quello della consapevolezza e chissà se avremo davvero la forza e l’energia poi per affrontare il secondo processo, quello ancora più importante: reagire. Ribellare la nostra quotidianità stanca, smemorata, smarrita, senza punti di riferimento, ferita d’anni di fuoco, incrociata da specchi che riflettono sempre la stessa identica immagine. Che preoccupante silenzio. Probabilmente ci siamo.

I gruppi si sciolgono, i singoli non escono, le case editrici chiudono, nessuno paga, gli inattivi si riproducono, nessuno paga, anche il talento sembra davvero essersi stancato ed ancor di più il genio. Tutti hanno deciso di ritirarsi e di non andare neanche in cura, ci rinunciano. Forse solo “i pianisti continuano a suonare. Ogni mercoledì, dalle 11 alle 12. Dal proprio psicologo”. I locali chiudono, i centri si decentrano, le città iniziano a perdere intere generazioni precise. Pezzi mancanti. Macerie al macero. Non ci chiediamo il perché. Padri e figli parlano, fra un Higuan e l’altro, di pensione a 67 ma c’è chi a 41 è figlio a carico e nel frattempo anche padre. Primo impiego, primo ripiego.

Il problema resta 67 non 41.

A volte si distingue qualche fischio ma chi li merita è sordo, credibilmente sordo. Nessuno si fa da parte. Tutti, tutti, si sentono chiamati in causa. Siamo in diretta. Ma per quale motivo? Selfie della gleba. Pubblico. Ma per quale motivo? Guardiamo la telecamera per guardare noi stessi. Parla l’esperto. Parla l’esperto. Parla l’esperto. Parla l’esperto. Commenta, commenta, commenta, risposta al commento, risposta al commento, risposta al commento. Condivido. Mi piace. Non mi piace. Emoticons. Sottoposti a mille impulsi ci illudiamo di avere altrettante valide risposte e giudizi e poi ci permettiamo anche di sorprenderci. Ci sorprendiamo di Anna Frank , di rapine da 10 euro e strade sporche, di politici indagati e cittadini adagiati. I quindicenni protestano perchè non sono pagati per formarsi, i trentacinquenni disoccupati sono invece formati per andare comunque in qualche modo avanti. Ci sorprendiamo di identità e contenitori perduti e dovremmo davvero vederci qualche volta dall’esterno: sollevare lievemente le spalle, annuire con la testa, generalizzare argomentazioni di cui conosciamo in realtà solo il titolo; salutarci, paghi di aver detto la nostra, di aver ascoltato anche la nostra, di aver condiviso la nostra. Ci illudiamo che nessuno paghi il conto, invece lo stiamo facendo in tutti questi momenti che si susseguono ben distintamente. Chissà forse sarà così o forse no. Nel frattempo tutto chiude e tutto si riduce, anche il sole sembra ritirarsi prima d’autunno e arrivare l’indomani dopo, con calma, senza fretta. Eppure un pò di luce arriva ancora quaggiù. Filtra. Eppure un pò di luce. Eppure forse riesco ad alzarmi. Eppure forse. Ricordate come eravamo, ricordate? Ma certo che ricordiamo. Accadde oggi. Eravamo in grado di riuscirci? E ora? Cosa ci è successo.

L’impressione di una implosione.

Forse è giunto il momento. Forse mento”.

Mino Pica, 26-10-2017
scrivendo ascoltando: Grant Green – It Ain’t Necessarily So.