Che senso ha la paura dell’indie di Max Collini

Brindisi, 21.08.2022

“Hai paura dell’indie?” di Max Collini, cantautore degli Offlaga Disco Pax (2003 – 2014), è uno spettacolo definito post teatrale, di circa 60 minuti, in cui l’autore recita, legge e racconta una personale selezione di testi di canzoni, alternate fra il nuovo pop di questi ultimi anni, la tradizione cantautoriale italiana, nel sottotesto di un mondo indie sommerso ed andato.
Fra gli appuntamenti dello Yeahjasi Brindisi Spazio Musica, mi sono ritrovato quasi per caso a decidere di assistervi, cercando on line qualcosa, poco prima di trovare parcheggio. Ciò detto per spiegare di non saper bene cosa aspettarmi dallo spettacolo, attratto dal nome di una delle band più significative degli anni 2000.

Iniziato, la perplessità mi ha accompagnato in diversi momenti dello spettacolo.

La prima perplessità deriva dalla scelta di un cantante di leggere delle canzoni; non mi verrebbe mai in mente di produrre un audiolibro per descrivere una fotografia o un dipinto…presentare una canzone senza musica è non farlo pienamente. Tuttavia, sconfortato dalla deriva di questi ultimi 5 anni della musica tutta, ho immaginato che lo spettacolo volesse significare/approndire in maniera onesta, l’involuzione della qualità ed il drastico cambiamento del suo linguaggio.

Messo da parte questo primario dubbio, Gollini ha iniziato la sua selezione, con autori decisamente recenti che raccolgono milioni di visualizzazioni e spettatori paganti a quanto racconta. I testi, fra zuccheri filati e yo decisamente inflazionati, inutile dirlo, distano notevolmente da quella cifra a cui siamo stati educati. Tuttavia tardava ad arrivare l’onesto paragone fra il nuovo pop ed il vecchio pop, fra i linguaggi delle nuove intergenerazioni e le nostre (scrive un classe 1982). Quel tono paraculistico, molto lontano da una più apprezzabile evidente ironia o analisi onesta offerta, ha prodotto indubbio fastidio, in chi scrive ovviamente (il pubblico sembrava apprezzare – specifico), e quella mancanza di senso e utilità che mi ha lasciato interdetto.

Come si può? Come onestamente si può conoscere, comprendere, interpretare, capire un linguaggio, paraculandolo a ripetizione, con parametri di paragone così posti, a mio modo di vedere, ingiusti.

Certo, siamo smarriti, distanti da quel mondo indie, da quella qualità che, per me, ha smesso di rigenarsi intorno al biennio 2014-2016 (insieme a numerevoli altri mondi…). Tuttavia, quando rialzeremo la testa ed inizieremo a chiederci, a conoscere, a interpretare veramente lo specchio di ciò che ci propone il palco? E a pretendere o cercare cambiamenti se non ci ritroviamo in nessuno di essi?

Fra gli ultimi brani proposti dello spettacolo definito post teatrale di Collini, uno di Franco Battiato; una scelta a voler dimostrare la distanza (Coez, Gazzelle, I Cani, Achille Lauro, Calcutta – fra alcuni degli altri testi proposti precedentemente).

Davvero però possiamo mettere sullo stesso piano la letteratura cantautoriale degli anni Settanta (la canzone di Battiato scelta appartiene a quell’epoca) con quella misurata del 2022. Davvero immaginiamo di poter confrontare il contesto critico di quella epoca, la ricerca, il linguaggio, il confronto, il dibattito sopratutto giovanile, la centralità civica e sociale della musica, con il 2022?

Oggi, i testi, l’atteggiamento, la ricerca sono figli della soglia di attenzione contemporanea, di passaggi educativi saltati e di cui il contesto, con colpa, non si assume alcuna responsabilità o interesse. Non credo che paraculando in quel modo, tutto ciò che il momento comunque ci propone, riusciremo ad arricchire la proposta del nostro palco collettivo. Ogni epoca, ogni interepoca ha avuto una determinata letteratura cantautoriale con mille sfumature/generi/subcontesti, con un baricentro definito da un codice qualitativo, da un messaggio, da una spinta, da un contesto. Il baricentro 2022 sarà quello che sarà ma per lo meno iniziamo a comprenderlo, immaginando lo spazio per i subcontesti smarriti.

Se paragono un colore ad un cibo, e se lo scopo è comprenderlo, in questo modo, probabilmente, resteremo molto distanti.
Se lo scopo è passare 60 minuti sorridendo, senza senso, con tratti di superficialità alternati a momenti binari privi di sfumature, ok, lecito.

In fin dei conti, seppur critico, questo suo spettacolo mi ha aperto a queste riflessioni ed è giusto che ci sia.